UNO MISURA LE PAROLE, L’ALTRO PARLA FINO A DILUIRE IL PENSIERO.

Marzio Breda

Tra Palazzo Chigi e il Quirinale, gli stili diversi di due presidenti

Uno «misura le parole, le centellina, le usa come un imperativo kantiano e, come De Gasperi, quando ha finito di parlare non ha niente da aggiungere»…L’altro «parla parla parla… e si direbbe che lo fa per diluire il pensiero, ridurlo a coriandoli e disperderlo… il motto che gli si addice è loquor ergo sum». Uno si presenta con istituzionali abiti color antracite. L’altro veste «come un gagà, con pochette al taschino di giacche sciancrate, un Lord Brummel di Volturara Appula».

Uno è «fatto con il fil di ferro dentro», ed è di un’immutabile coerenza (vedi Parmenide). L’altro è «disponibile a indossare i panni dei suoi interlocutori, lieto di recitare la parte del Cireneo che canta e porta la croce», pronto al trasformismo, dunque «in eterno divenire» (vedi Eraclito). Il primo è presidente della Repubblica, il secondo presidente del Consiglio. Diversissimi per cultura e modo d’ interpretare il ruolo, ma per un aspetto simili essendo entrambi «a sangue ghiaccio», sono i protagonisti dell’ anomalo biennio che ha aperto questa legislatura.

Anomalo se soprattutto si considera il profilo del premier. Il quale, dopo un incarico maturato «a sua insaputa», è riuscito a succedere a se stesso alla guida di due governi fondati su maggioranze (sin dall’ inizio fragili e disunite, comunque) di opposto segno ideologico. Una prodezza politica analizzata da Paolo Armaroli, costituzionalista già deputato di An e membro della Bicamerale dalemiana, in un saggio penetrante e dal ritmo brioso: Conte e Mattarella (La Vela).

È, come recita il sottotitolo, «un racconto sulle istituzioni», che già dalle prime pagine dilata oltre il prevedibile la sfera tecnico-giuridica. Infatti, investigando su quanto è andato in scena e quanto è rimasto dietro le quinte, Armaroli tonifica la propria ricerca con l’introspezione psicologica. Il risultato ci consegna l’immagine di un premier «per caso», che supplisce alle incertezze con la furbizia del temporeggiatore, con un’istintiva capacità manovriera e «nervi d’acciaio».

Doti insufficienti, però, se non si ha l’esperienza per cogliere la complessità della politica, specie quella di oggi, e se non si possiede il senso della mediazione che è la forza di Mattarella. Come si è constatato nei momenti critici, quando il capo dello Stato ha usato la persuasione morale, sconfiggendo chi puntava alla catastrofe. Un tipo di prova che si ripropone ora. Non occorre essere antipatizzanti di Conte per avere qualche riserva su come concepisce l’azione di governo. Di sicuro ha «il merito» di essersi avvicinato al Quirinale, forse più per imparare che per ingraziarselo, al punto da diventare «più mattarelliano di Mattarella».

Paolo Armaroli

Una metafora, questa di Armaroli, che suona da provocazione, se non altro perché glissa su un certo animus vendicativo del premier. Basta ricordare la sua invettiva nel giorno della prima caduta in Parlamento, davanti a un Salvini che solo in quel momento deve aver capito dove sarebbe sfociato il proprio suicidio politico. Nella resurrezione di Conte, appunto.

 

 

 

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